2/3 contemporaneo jesi 2011
Concetto
“temporale”. Attese.
di
Chiara Canali
L’intersecarsi
dei piani ortogonali e lo sviluppo fluido del colore costituiscono la sintassi
attraverso cui si esprime la ricerca di Marta Mancini. Attiva a Jesi fin dai
tempi del diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino, da una decina
d’anni l’artista lavora con assiduità e rigore per circoscrivere e definire
sempre di più in pittura il suo concetto di astratto. Parliamo di astrazione ma
non di assenza. L’astrazione viene intesa non come distacco e apatia, bensì
come schermo piano sul quale si imprimono le tracce eloquenti di una storia
soggettiva, perché la sua ricerca comunica a un livello evocativo ed emozionale
sotteso.
Marta
Mancini pratica una pittura lieve e insieme drammatica che si palesa per
metafore e, attraverso la forma astratta, i suoi lavori anticipano una natura
soprasensibile tutta da scoprire. Le sue opere sono sempre connotate da un
titolo lirico e poetico, attribuito al termine della realizzazione dell’opera,
che esprime direttamente lo stato d’animo dell’artista durante l’esperienza
soggettiva della stesura pittorica. Sulla superficie di ogni quadro è infatti
possibile per l’artista registrare fisicamente la perfetta intuizione di un
moto poetico: Quello che resta oppure
Ti invade l’anima sono
esemplificativi di questa morfologia. Espressiva ed empatica, greve e luminosa,
la sua pittura si manifesta nella presenza e al tempo stesso nella perdita.
Eppure
il suo quadro astratto non manifesta una comunicazione immediata e diretta, in
quanto la libertà espressiva sembra essere limitata da uno schema formale
talvolta rigido, talvolta liquido e mutevole. Inizialmente la griglia
geometrica sembrava assente e aleatoria e spesso comparivano forme circolari e
slabbrate che interrompevano lo scorrere fluido delle cromie. In seguito è
emersa sempre più prepotentemente la necessità di un rapporto costante, seppure
problematico, fra i colori e il reticolo geometrico che sembrava limitarli.
All’interno dei quadri astratti Marta Mancini utilizza file ritmiche di strisce
orizzontali e linee verticali accatastate perché questo è il linguaggio visivo
che le permette di razionalizzare meglio lo spazio. Ne sono un esempio le opere
Untitled (2010) dove una texture geometrica, si
espande e si contrae fino a generare un libero sviluppo di bande a incastri.
Lo
stile di Marta Mancini è determinato dalla necessità di fare un quadro che si
basa su due nature apparentemente inconciliabili: una che comporta l’ordine
della griglia spaziale e l’altra che prevede lo scompiglio della trama
temporale. La superficie dipinta a mano porta con sé il peso della visione nel
tempo, della contemplazione attraverso la storia, del perdurare nella memoria.
Attraverso lo sconvolgimento del disegno, il peso del tocco e le sfumature del
colore l’artista afferma la possibilità che le forme si sfumino, si sovvertano
e si carichino di una realtà trasformata, che preannuncia un perturbamento
temporale, al di fuori del perimetro spaziale.
In
questa sua predisposizione, la pittura di Marta Mancini è senz’altro debitrice
della lezione di Sean Scully, il maestro irlandese che ha conosciuto e
incontrato personalmente e a cui ha dedicato la propria tesi accademica. Nella
pittura drammatica di Scully non viene più presentato un campo astratto olistico
ed unificato, destinato a fornire stati o risposte assolute, bensì una griglia
suddivisa in riquadri plurimi che si oppongono all’unicità di spazio-tempo.
Affermava Scully in un’intervista: “Nelle mie opere il dramma ruota attorno
alla lotta tra forme sistematiche e unificanti e i vari piani e collegamenti al
cui interno esse sono obbligate a esistere. È questa un’arte di relazioni che
io spero abbiano equivalenza con la disgiunzione e la costante costruzione del
mondo”.
Allo
stesso modo nelle opere di Marta Mancini se la forma appare concettualmente
architettonica e definita, la sovrapposizione delle tonalità e il lento fluire
del colore oltre il reticolo geometrico alludono a un’esperienza percorribile
in un’ottica di durata nel tempo.
E
qui entrano in gioco i lavori dal titolo emblematico “Attese” che da un lato risultano un omaggio all’opera di un altro
grande astrattista italiano, Lucio Fontana, e dall’altro innescano quella
dialettica temporale a cui facevo riferimento in queste ultime mie riflessioni.
La serie “Attese” è costituita da un polittico di riquadri orizzontali
inseriti in scatole di ferro che presentano una superficie lavorata a motivi
differenti: a righe orizzontali sovrapposte, a spazi triangolari tagliati da
una X, a zone informali modellate con sabbia e cera, a inserti superficiali di
residui materici tondi (fondi di colore essiccati e applicati come fossero
formelle oggettuali). Nessun dipinto vive come singolo ideale a sé stante, ma
ciascuno dei pannelli è concepito per essere visto nell’insieme, secondo una
costante idea di iterazione, variazione e ripetizione, come se costituisse una
sezione ininterrotta di una sequenza che si dispone nell’arena visiva, rendendo
possibile la comunicazione nella disunità. In più, la collocazione a terra,
nello spazio ambientale della galleria, restituisce una percezione diversa,
anche per il fatto che l’illuminazione che percepiscono non è quella aerea e
soffusa, bensì quella diretta derivata dalla collocazione di singole lampadine
che pendono verticalmente a distanza ravvicinata sull’opera. Il senso dell’
“attesa” si configura dunque sia dal punto di vista spaziale, che temporale
recuperando il senso ampio e poli-allusivo delle “Attese” di Fontana: la ricezione di queste opere si apre ad
un’intenzione contemplativa, quasi vagamente metafisica, che prevede
un’allusione primordiale, di astrazione archetipa.
D’altra
parte anche la struttura della superficie pittorica imbevuta di luce che
promana dall’alto sottintende l’idea di rivelazione teofanica, di epifania
secondo il significato epistemologico dato da James Joyce in “Dubliners”, cioè
di improvvisa rivelazione di una verità emblematica o della realtà interiore
delle cose, che si può manifestare in un frammento, nella descrizione di un oggetto
comune o insolito. In questa accezione è indicativo uno dei racconti scritti da
Joyce intitolato Eveline in cui
leggiamo “Attendeva paziente, quasi allegra, senza nessuna ansia, mentre i
ricordi cedevano il posto a speranze e progetti”.
L’aspettativa
del futuro è sempre connessa con la memoria del passato, in un connubio che
rende compresenti le emozioni provate nel passato e riattualizzate nel presente
e le esperienze, apparentemente inconciliabili con la memoria, delle speranze e
delle attese. Sono forse le categorie del non-ancora e dell’in-compiuto che
caratterizzano meglio la ricerca pittorica di Marta Mancini, in un orizzonte di
senso che allarga la nostra percezione dell’interiorità e del tempo.